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MERCATO DEL VOTO A PORT-AU-PRINCE

novembre 23, 2010

USCITO SU IL RIFORMISTA DEL 23 NOVEMBRE 2010

Si chiama Bel Air, in creolo Bèlè, aria buona, fresca. Ma il nome scelto dagli ex colonizzatori francesi ai tempi di Napoleone Bonaparte per il più antico quartiere di Port-au-Prince va bene per i libri di storia. Per arrivare in questa zona che le forze Minustah sulle loro mappe hanno cerchiato con il pennarello rosso (“meglio non andarci” ha detto un agente Onu, un indiano sikh che al posto del casco aveva un turbante blu), bisogna lasciarsi alle spalle Rue sans fil, una delle strade principali che porta a quel bianco Palazzo presidenziale su Champs de Mars sventrato e piegato su se stesso simbolo di un potere politico che si è arreso ed è scappato davanti alle tragedie che dall’inizio di quest’anno si sono abbattute sul paese. Si attraversano stradine strette, piccoli tornanti stracolmi di persone che passano da una parte all’altra delle vie con noncuranza dei motociclisti i quali rispondono con lo stesso menefreghismo guidando con un piede pesante sull’acceleratore e limitandosi ogni tanto a suonare il clacson se qualcuno dovesse interrompere la loro volata non si sa bene verso cosa. Dopo circa un chilometro la strada porta a una salita che si apre in una piccola piazza dove decine di ragazzi bivaccano davanti a un bar che oltre a bibite e al “dlo”, l’acqua in bottigliette, vende droga “solo marijuana” dicono. Altri giocano a pallone con delle porte improvvisate mentre le ragazze sedute su dei sgabelli chiacchierano e fumano erba arrotolata in foglie di tabacco. Non parlano volentieri, le donne più degli uomini, quando decidono di dirti qualcosa lo fanno rappando in creolo, dove l’unica cosa comprensibile e ripetuta più volta è la parola “blanc”, bianca o bianco. Qui viene tutti i giorni Moise Louissaint, un signore di 47 anni, haitiano che ha vissuto 22 anni a New York, dove ha lasciato una moglie che fa l’infermiera e due figli, e da due è ritornato a Bel Air “mi hanno rispedito qui perché ho commesso dei piccoli crimini in America” spiega Moise “secondo una legge americana quando vieni arrestato per tre volte scatta l’obbligo dell’ rimpatrio”. I piccoli crimini commessi da Moise sono furto e spaccio di crack, “nella zona di Flatbush a Brooklyn” dice “ma lo facevo da giovane ora ho smesso”. E’ in vena di ricordi, Moise. Spiega che il quartiere nel passato, era una roccaforte dell’ex Presidente Jean – Bertrand Aristide. “Tutti qui sostenevano Aristide. Ora la situazione è completamente cambiata”Forse sostengono i due probabili vincitori delle elezioni di domenica prossima: il candidato protégé dell’attuale presidente René Préval, il quarantottenne Jude Celestin? Oppure l’ex first lady, in auge soprattutto tra l’elite intellettuale del Paese, Mme Mirlande Manigat? “Ma no, chi capita!” dice Moise “o meglio chi gli fa più regali”. Il voto di scambio è pratica diffusa, i giornali locali scrivono che tutti i candidati, nessuno escluso, ricorre a ingraziarsi elettori con dei premi-regalo. I regali di cui parla Moise sono, in ordine: soldi, armi, moto e macchine. E’ tutto quello che un giovane vorrebbe avere? “Ma sì, qui a Bel Air o a Cité Soleil (l’altra zona “rossa” della capitale) a chi vuoi che freghi della politica? A nessuno. Non vedi, pensano a fumare, poi a fumare, se è possibile ancora a fumare. Interrompono solo per giocare a pallone, ascoltare musica reggae e fare un po’ di casini per strada”. Un ragazzo che fino a quel momento era intento in un canto solitario, evitato e deriso perfino dai suoi compagni, si avvicina lentamente. A mo’ di sciarpa arrotolata attorno al collo ha una maglietta a strisce nere e blu dove si intravede la scritta “Pirelli”. Vorrebbe intervenire, dire qualcosa, ma proprio non ce la fa. Gli occhi sono quasi completamente chiusi, cerca di mantenere un sorriso in quei pochi istanti quando la testa che cade verso il basso e poi va all’indietro passa a metà strada. “E’ pieno di droga” dice Moise che poi scoppia a ridere e rolla una canna spiegando che questa invece è “tutta roba naturale”. “Avrà capito che sei italiana, è un grande tifoso dell’Inter. Io invece seguo il campionato spagnolo”. Si sente dal fondo della strada un rombo di un’auto; i ragazzi iniziano a urlare e spostano in fretta e furia le porte del calcetto.  Da una macchina senza più il tetto, con le fiancate completamente bruciate e musica reggae assordante, accolto da una standing ovation, scende un ragazzo. E’ vestito bene, ha dei jeans blu scuro e una maglietta bianca, delle scarpe da ginnastica nuove e le immancabili collane d’oro al collo, due. In una mano tiene una bottiglia di champagne mezza vuota nell’altra un bicchiere con del ghiaccio dentro. “Wonderful! Stupendo!” dice il fotografo dell’Associated Press con cui sono venuta. Ma Herbie, così si chiama o si fa chiamare il giovane boss di Bel Air, si fa una crassa risata quando gli chiede se può fargli una foto. Vuole parlare solo in creolo, “pas de français”. Moise traduce, ridacchiando. In realtà non ha mai smesso. “Dice che state perdendo tempo. Dice che la politica è roba per chi pensa di avere un futuro” e aggiunge “non è questo il posto”. Sentenziato ciò, Herbie se ne va con la sua bottiglia di champagne, il bicchiere con il ghiaccio, dopo aver urlato qualcosa alla sua gente, sale sulla sua auto scassata a suon di reggaeton. Ridacchiando. Anche lui. Come d’altronde fanno tutti qui.

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