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Oscar!

marzo 6, 2014

Oscar!

“La cultura ci salverà non il denaro”. Intervista a Martha Nussbaum

marzo 8, 2011

USCITA SU IL FATTO QUOTIDIANO, 8 MARZO 2011

Se in un Paese democratico un importante ministro della repubblica sbeffeggia pubblicamente l’importanza della cultura ( “di cultura non si vive, vado alla buvette a farmi un panino alla cultura e comincio dalla Divina Commedia”), se, magari nello stesso Paese, un altro importante ministro taglia docenti, ricercatori, quindi numero di ore, delle facoltà umanistiche ritenute un lusso in tempi di austerity, qual è il futuro di questo Paese? Martha Nussbaum, la grande filosofa americana, professoressa di Law and Ethics all’Università di Chicago, collaboratrice del premio Nobel per l’economia Amartya Sen, studiosa di John Rawls, teorica del femminismo liberale, nel suo nuovo saggio “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica” (ed. il Mulino) dà una risposta a questa domanda e spiega perché le democrazie devono necessariamente nutrirsi della cultura umanistica e artistica. La Nussbaum denuncia apertamente la “crisi dell’istruzione – silenziosa e strisciante come un cancro- che si è abbattuta sul mondo. E all’accantonamento –spiega la studiosa americana al Fatto Quotidiano- delle materie umanistiche come la storia, la letteratura, la filosofia, tutti saperi indispensabili a mantenere viva, sana e robusta la democrazia”. Nel saggio la Nussbaum si indirizza ai governi delle democrazie vecchie e nuove, occidentali e orientali: “perché riscoprano l’importanza e l’utilità delle materie umanistiche, perché non diano vita a generazioni di docili macchine che ciecamente ubbidiscono all’autorità senza interrogarsi”.

 

Professoressa Nussbaum partiamo da qua. Giovani che non si interrogano, che sono acritici anziché, come dice lei nel suo libro, cittadini del mondo. Questo è lo scenario a cui si va incontro?

 

Sì, e questo risultato non tarderà a venire se i governi del mondo non riconosceranno l’importanza dello studio delle storia, della letteratura, delle arti e anche delle religioni. Ci troviamo nel bel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata globale. Non parlo della crisi economica mondiale iniziata nel 2008. In quel caso tutti si sono resi conto di cosa stava accadendo e si sono dati subito da fare per cercare una soluzione. La crisi dell’istruzione sarà ben più dannosa per il futuro della democrazia. Socrate diceva “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”. E da qui parte il mio studio. La capacità di auto esaminarsi, di interrogarsi e di pensare alla maniera socratica è però ora sotto duro attacco in un mondo sedotto dalla crescita economica e dalla logica del profitto a breve termine dove si ritiene che gli studi tecnici siano più utili a trovare lavoro di quelli umanistici.

 

In “Non per profitto” lei esamina tre aspetti fondamentali perché una democrazia possa durare negli anni. Ci spiega quali sono?

 

Il primo punto è, come dicevo prima, la capacità di auto esaminarsi. Socrate pretendeva che le persone, gli ateniesi e i suoi allievi, si domandassero, cosa penso veramente? per cosa devo lottare? Ora abbiamo bisogno di questo tipo di stimolo e dobbiamo tornare a porci questa domanda per evitare di vivere passivamente l’autorità, ciò che i nostri politici ci raccontano e accettare ciecamente quello che ci viene offerto.

 

In questo senso possiamo interpretare la rivoluzione araba nata come reazione a decenni di regimi dittatoriali?

 

Sì, certo. Il concetto di ribellione è vicino all’ auto interrogarsi socratico. Gran parte dei movimenti democratici presentano quest’aspetto in quanto analizzano criticamente la struttura del potere mettendola in discussione: i cittadini si chiedono “per cosa devo combattere?”. E’ pur vero che non è sufficiente avere un “argument”, un motivo critico, per scendere in piazza. C’è bisogno di altri elementi. Ma certo se lo si possiede si è già a un buon punto.

 

Nel libro parla dell’importanza di essere cittadini del mondo. Cosa significa?

 

E’ il secondo punto fondamentale ad una sana democrazia. Spesso e volentieri siamo degli ottusi, pensiamo in modo troppo limitato, cresciamo all’interno di famiglie, in piccole comunità locali. Al contrario dobbiamo allargare le nostre vedute, imparare quale sia l’interesse e il bene della nostra nazione in rapporto a tutte le altre nazioni del mondo. Per costruire un mondo decente dobbiamo preoccuparci di comprendere la vita delle persone che vivono al di là dei nostri confini. In termini educativi significa che è necessario avere una qualche comprensione della storia ma anche della religione degli altri popoli. Si pensi a quanta ignoranza c’è sull’islam, ad esempio. Questa provoca gravi conseguenze a livello politico perciò è essenziale che queste materie vengano insegnate evitando stereotipi e luoghi comuni.

 

 

Il terzo aspetto, professoressa Nussbaum?

 

La terza competenza del cittadino si chiama empatia o immaginazione narrativa. Non è sufficiente possedere una certa quantità di nozioni culturali e storiche se non se ne comprende la portata umana. Ora, noi tutti nasciamo con l’abilità di vedere il mondo dal punto di vista di un’altra persona. Secondo gli psicologi quest’abilità esiste già alla fine del primo anno di vita. Ma come tutte le capacità deve essere  sviluppata e nutrita. Non è possibile continuare a vedere il mondo dal punto di vista dei nostri genitori o dei nostri amici. E’ necessario estendere la propria immaginazione e imparare a prendere decisioni diverse affinché si possa avere un quadro chiaro dell’impatto che le politiche hanno sulla vita dei poveri, delle minoranze, e dei cittadini di altri Paesi.

 

E per assolvere questo compito è necessario lo studio delle materie umanistiche.

 

Certo. Le scuole, le università devono assegnare un posto di rilievo nel programma di studio alle materie umanistiche, letterarie e artistiche, non tagliarle come sta succedendo in molti Paesi a tutti i livelli, dalle elementari all’ università. Per fortuna ci sono delle controtendenze, i più importanti formatori di dirigenti d’azienda hanno capito che l’innovazione richiede intelligenze flessibili, aperte e creative. La letteratura e le arti stimolano queste facoltà.

 

 

febbraio 21, 2011

http://www.ilpost.it/makkox/2011/02/21/gli-angeli-a-malta/

 

DA LONDRA,”CE LA FAREMO E LO FAREMO SENZA ARMI”

febbraio 21, 2011

SUL RIFORMISTA DEL 18 FEBBRAIO 2011

“Per anni ho tentato con i miei compagni di abbattere militarmente il regime totalitario di Gheddafi ma non ci siamo riusciti. Ora però il clima è diverso, è quello giusto e grazie all’esempio dell’Egitto e della Tunisia anche in Libia cambierà qualcosa. Cambierà senza l’uso delle armi”. Ashur Shamis è stato tra i fondatori di quel Fronte nazionale per la salvezza della Libia che nel maggio 1984 a Tripoli tentò di assassinare Muammar Gheddafi. Da allora Shamis non può tornare in Libia per una taglia di un milione di dollari che fino a pochi anni fa pendeva sulla sua vita. Ora vive a Londra dove presiede il Libya Forum.

Ieri è stata la “giornata della rabbia” in Libia com’è stata chiamata su Facebook. Anche qui è crollata la cortina della paura?

Sì, grazie alle proteste in Egitto, Tunisia ma anche nello Yemen e nel Bahrein, i libici hanno preso coraggio e sono scesi in piazza. Si tratta di proteste pacifiche, la gente non ha armi, ma solo tanta rabbia per la totale mancanza di libertà e per la grave situazione economica in cui la Libia è da anni sprofondata.

Secondo l’agenzia di stampa libica Jana, ieri ci sono state anche proteste pro Gheddafi. Chi sono i sostenitori di Gheddafi, se veramente esistono?

Si tratta di manifestazioni pre organizzate e orchestrate dal regime di Gheddafi: i partecipanti vengono pagati oppure gli vengono fatti dei regali, vestiti ad esempio, e spesso sono anche minacciati. Se lei guarda le immagini di queste proteste si accorgerà che le persone indossano gli stessi abiti – camicie o sciarpe verdi, qualcuno porta il turbante-, centinaia di bandiere, tutta roba che gli viene data dal regime. E poi, osservi i loro volti, nessuno sembra convinto di quello che sta facendo ma lo deve fare perché altrimenti rischia la vita. Alcuni dei partecipanti a queste manifestazioni fanno parte dei comitati rivoluzionari, un gruppo organizzato legato al regime che possiede armi e i cui membri non sono riconoscibili perché girano in borghese. Inoltre questo tipo di manifestazioni non sono una novità. Gheddafi è spesso ricorso a questo vecchio espediente per mostrare al proprio popolo e alla comunità internazionale che gode di un ampio consenso. Nulla di più falso.

Sono in molti a essere scettici sulla caduta del Colonnello. Gheddafi è ad esempio riuscito a sopravvivere a sei presidenze americane e ad altrettante direzioni della CIA. Resisterà anche adesso?

Difficile da dire se il raìss cadrà. Gheddafi è sicuramente più debole rispetto ad anni fa e queste proteste sono per lui una faccenda nuova che non potrà ignorare. In qualche modo dovrà prenderle in considerazione: dovrà modificare la struttura politica, economica e sociale del Paese. Le cose possono cambiare, nonostante molti, anche tra gli arabi, siano convinti del contrario soprattutto perché numericamente i libici non rappresentano una forza come nel caso degli egiziani (la Libia conta 6 milioni di persone, l’Egitto 85 milioni, ndr).

Ma in Libia ci sono sempre state manifestazioni contro il regime. Il 17 febbraio di cinque anni fa, a Benghazi, la polizia uccise i manifestanti che protestavano davanti al consolato italiano.

Sì, certo, ma la grande differenza con i fatti del 2006 è che oggi le immagini di queste proteste vengono diffuse dai canali satellitari come Al Jazeera e la BBC e sono accessibili a tutti, soprattutto a coloro che vivono al di fuori della Libia. In più l’atmosfera generale nel Maghreb e nel Medio Oriente è cambiata, ci sentiamo tutti più vicini. In questo senso si sta aprendo per il mondo arabo una nuova era.

David Cameron, Angela Merkel, Barack Obama ad un certo punto hanno tutti espresso la loro solidarietà al popolo egiziano. Nonostante i legami economici con Gheddafi si aspetta parole di conforto dai grandi leader occidentali?

Le persone in Libia stanno tentando di fare arrivare questo messaggio all’Europa e agli Usa. Ci aspettiamo che gli europei ci sostengano. Ad un certo punto, se le proteste andranno avanti, i grandi del mondo saranno costretti a fare delle dichiarazioni in merito e sono certo che saranno parole di supporto per i libici, non per Gheddafi.

INTERVISTA A RAMIN JAHANBEGLOO SULLA RINASCITA DELL’ONDA VERDE

febbraio 21, 2011

SUL RIFORMISTA DEL 16 FEBBRAIO 2011

“L’Iran non è l’Egitto, ci vorrà più tempo ma il processo di democratizzazione è ormai avviato”.  Da Toronto, in Canada, Ramin Jahanbegloo, filosofo iraniano, uno degli intellettuali più in vista e temuti dal governo Ahmadinejad, imprigionato nel 2006 per cinque mesi nel carcere di Evin, spiega al Riformista la rinascita dell’onda verde, il movimento pacifista iranaino nato due anni fa in seguito alle elezioni presidenziali, e perché “bisognerà aspettare per assistere alla caduta di Ahmadinejad”.

Professor Jahanbegloo, l’Egitto sta facendo da apripista anche per l’Iran nella lotta per la democratizzazione?

Non v’è dubbio che quello che è successo in Egitto è stato uno stimolo e un esempio da seguire per il movimento democratico e per gli attivisti in Iran. C’è di fatto un effetto domino che si sta gradualmente espandendo in tutta l’area geografica. Ma ci sono anche delle differenze tra l’Egitto e l’Iran: come avrete notato dalle immagini televisive, la repressione da parte del governo iraniano è sempre dura, molto più aggressiva e violenta rispetto a quella avvenuta in Egitto.

Questo potrebbe significare che Ahmadinejad e i suoi sono spaventati e si sentono minacciati dalla nuova ondata di proteste?

Sì. E molto. L’intolleranza dei parlamentari e del governo iraniano nei confronti dei contestatori e del movimento pacifista nasce dalla paura che all’interno del Paese si possa creare un effetto valanga come è successo in Egitto. Detto più chiaramente, gli uomini al potere in Iran temono che ogni minima apertura verso la democratizzazione possa trasformarsi in un grande movimento in grado di minacciare o destabilizzare l’attuale dirigenza al potere per questo motivo ricorrono immediatamente alla repressione proprio per evitare che si ingigantisca e diventi una valanga.

Ieri, Karroubi e Moussavi, i leader dell’opposizione, hanno dichiarato che il movimento verde è vivo e gode di ottima salute. Ce la farà l’onda verde a travolgere il governo teocratico di Ahmadinejad o è ancora troppo presto?

Partiamo dall’assunto che nessuno ha mai creduto che il movimento pacifista- l’onda verde- potesse intraprendere il processo di democratizzazione in Iran e portarlo a compimento nel breve periodo. Il percorso è per l’Iran molto più delicato di quello che è stato per l’Egitto e non è affatto garantito. Ci vorrà del tempo, come c’è voluto per alcuni paesi in Europa perché in Iran avvenga quello che è successo la scorsa settimana in Egitto. Nonostante questo, sono d’accordo con Karroubi e Moussavi e penso che il movimento sia vivo. Sui giornali in questi due anni non se ne è parlato molto ma i giovani iraniani non hanno smesso di lottare per un Iran democratico.

Perché in Iran il processo di democratizzazione è più delicato rispetto all’Egitto?

E’ necessario che si raggiunga un equilibrio. Con questo voglio dire che l’onda verde che è di per sé un movimento non violento, pacifista al 100 per cento, ha bisogno di tempi più lunghi affinché possa prendere piede in tutto il Paese. Non siamo di fronte a una rivoluzione di stampo cubano o bolscevico dove i leader ricorrono alla violenza e alle armi. Nel caso iraniano, i partecipanti alle proteste come quelle di ieri o di due anni fa, contestano il governo di Ahmadinejad, la repressione e la violenza usata dalle Guardie della rivoluzione, l’assenza di libertà e il mancato rispetto dei diritti umani e vogliono anche che il mondo si accorga di cosa realmente succede all’interno del Paese. Tutto questo senza ricorrere alle armi.

Da settimane l’Europa assiste davanti alla televisione a eventi che stanno cambiando la storia e non solo del mondo musulmano e arabo. Quale lezione devono trarne i nostri leader?

L’Europa dovrebbe fare due cose: la prima è di continuare a farsi promotore dei diritti umani e sfidare – mai sostenere- tutti quei governi che non accettano l’idea di democrazia. Deve poi giocare il ruolo di continente-amico per assicurare un’ adeguata protezione a queste nuove e giovani democrazie.

febbraio 20, 2011

SU LETTERA 43… L’EMIRA DEL QATAR FA LA SUA RIVOLUZIONE

http://www.lettera43.it/persone/8866/mozah-l-emira-delle-arti.htm

DALLO STADIO ALLA PIAZZA. I TIFOSI DELLA PROTESTA

febbraio 9, 2011

USCITO SU IL FATTO QUOTIDIANO DEL 9 FEBBRAIO 2011

“Nelle proteste delle ultime due settimane i tifosi di calcio stanno giocando un ruolo molto più significativo di qualsiasi altro gruppo politico”. Intervistato da Al Jazeera, Alaa Abdelfatah, tra i blogger più seguiti in Egitto e attivista democratico, è certo di quello che dice. “E non c’è nulla di cui sorprendersi”. Alaa ha ragione e il motivo è semplice. In un paese in cui la polizia potrebbe arrestarti e buttare la chiave della cella per anni perché hai venti anni, una testa pensante e un blog dove Mubarak ha la faccia di Mussolini, dove a scuola i libri di testo sono buoni da usare come inginocchiatoi di fronte alla magnificenza del raìss e la stampa – tranne qualche Chisciotte – è asservita ai grand commis, le mura pronte ad accogliere gli sfoghi, le confessioni e le idee, sono poche, a volte segrete, altre sorprendentemente pubbliche. Al Cairo, ce ne sono due: c’è il luogo sacro, le quattromila moschee sparse nella capitale e c’è il luogo secolare, lo stadio costruito dal presidente Nasser dove ogni domenica giocano i due club più importanti del paese, la squadra Al-Ahly con oltre 50 milioni di tifosi in tutto l’Egitto e l’acerrima nemica El- Zamalek. I derby sono croce e delizia delle due tifoserie e il peggior incubo per la polizia locale, non solo per i disordini ma perché “football here is bigger than politics, il calcio qui è più grande della politica, it’s about escapism. Una valvola di sfogo, una via di fuga, è-potere-e-passione. A parlare è Assad, vent’anni, capo ultrà del Al-Ahly. Potere e passione, che significa? Significa che allo stadio gli egiziani decidono di tirare fuori la rabbia contro la prigione di sabbia in cui vivono da 30 anni; tra gli spalti si protesta contro il governo di Mubarak, si fa casino, si urla, si fa a botte e si canta l’inno nazionale mentre nel fondo un giocatore dribbla l’avversario, passa la palla e gol. “Gli ultras sono tra le persone che protestano nelle strade e spesso siamo proprio noi a guidare i nostri fratelli e le nostre sorelle” racconta Assad a un sito web arabo. Forse unico caso nella storia, quindici giorni fa gli ultras decidono di prendere parte alle manifestazioni, loro che finora si erano limitati a mostrare il volto incazzato solo all’interno dello stadio decidono di uscire allo scoperto e condividere la propria esperienza da ragazzi di strada, “chi meglio di noi conosce i metodi della polizia” spiega il giovane tifoso. Per le forze dell’ordine egiziane gli ultrà come Assad sono un’accozzaglia di criminali e terroristi, dei nulla facenti attaccabrighe. Per le autorità del regime di Hosni Mubarak sono – dal giorno della loro nascita quattro anni fa- delle mine vaganti da tenere costantemente sotto controllo. “Il governo ha avuto sempre paura di noi perché è difficile inquadrarci ideologicamente, per questo diamo fastidio”. Su Facebook, il gruppo ultras legato alla squadra Al Ahly ha tenuto a precisare che vuole rimanere apolitico ma “i nostri membri sono liberi di esprimere le proprie idee”. E Assad e gli altri non vedevano l’ora di scendere da quegli spalti.

 

 

RICORDANDO IL 12 GENNAIO 2010

gennaio 13, 2011

PREGHIERE DAVANTI ALLA CATTEDRALE, 12 GENNAIO 2011

Riti vodoo all'università

 

 

HAITI, UN ANNO VISSUTO CON GLI OCCHI DI JANA

gennaio 13, 2011

USCITO SU IL RIFORMISTA DEL 12 GENNAIO 2011

Corri, corri. Pensa solo a correre. Prendi la coperta, no la coperta no, prendi una bottiglia d’acqua, sì, ma corri. Chinaidè se la cava da solo, ormai è grande, ma Jolette e Peterson li devo portare in braccio. Se arrivo prima degli altri avrò il posto migliore, quello più sicuro magari anche più pulito. Però questi miei bambini pesano, tanto e troppo, non ce la faccio. Mi devo fermare. Jana ripercorre i mille e uno pensieri di quella notte di un anno fa, pensieri quasi tutti brutti, quell’uno poi, il più terribile: abbandonare Jolette che ha 4 anni e Peterson 18 mesi. Non proprio abbandonarli, lasciarli chez une amie ou un voisin, da un’amica o un vicino, si giustifica. Ma quale amico, quale vicino terrebbe con sé due fagotti di troppo nella corsa disperata a occupare un pezzo di aiuola, se ti dice bene, o un metro quadro di marciapiede, nella maggior parte dei casi. Ad un certo punto nella sua corsa a ostacoli, dove gli ostacoli non sono solo le macchine, le moto, le macerie, le persone vive e morte, ma anche le urla, i pianti, i gemiti, le braccia che spuntano ovunque e si allungano per chiederti una mano, che ti tirano per la gonna aiutami-a- tirare -fuori -mia -sorella, le sirene delle ambulanze impaurite che già sapevano che avrebbero portato a destinazioni pezzi di corpi, Jana ha rallentato, ha pensato agli altri, ai ricchi, al mondo che vuole bene a Haiti e agli haitiani, ai milioni di turisti che sono passati di qua e che hanno preso in braccio i loro figli anche i suoi per farsi fotografie-souvenir, i bianchi sì, ma anche i neri avec l’argent, con i soldi, gli europei, i francesi! (urla), e perché no i cinesi, sì loro ci daranno una mano avranno pietà e je m’en fous, me ne frego di fare pietà al mondo, basta che qualcuno ci aiuti. Allora sei corsa un po’ più leggera verso la tua isola felice. Appena arrivata all’una di notte del 12 gennaio 2010, quel pezzo d’asfalto ti sembrava proprio il regno di bengodi, c’era tutto, cioè c’era spazio e neanche l’ombra delle file di morti che per settimane sono stati la macabra cornice della capitale haitiana e delle 14 province ammazzate dal terremoto. L’oasi felice dove hai piantato il tuo materasso – che in realtà non avevi ma che da qualche parte hai rimediato – era già mezza piena, ma gli occhi innamorati vedono solo quello che vogliono vedere perché la verità è che non si trattava di un marciapiede né di un’ aiuola o un campo da pallone. E’ un pezzo di strada, lungo circa due chilometri, improvvisato come “camp pour déplacés” (il nome ve lo siete dato da soli). E la tua tenda insieme ad altre 40 (si calcolano le tende mica il numero dei cristi che ci vivono dentro)  fa da spartitraffico tra due corsie di macchine, camion, moto e i mezzi blindati dei caschi blu, che impassibili sfrecciano a destra e a sinistra a pochi centimetri dalla tua casa. Muoversi diventa un lusso.

LA TENDOPOLI DI JANA

Bisogna camminare raso-tenda. Per i bambini diventa quasi un gioco, una sfida “vince chi evita più di tre macchine”. Vai a spiegargli che è pericoloso. Pericoloso? E chi ci pensava un anno fa, sbuffa Jana. Ora però ci pensa. Soprattutto dopo che  nel giugno scorso suo figlio di otto anni, Chinaidè, ha perso al gioco “evitiamo le macchine” e non ha più il piede sinistro. A metà ottobre, è poi arrivato il colera. K-O-L-E-R-A, fa lo spelling a voce mentre lo scrive su un pezzo di carta per dimostrare che sa tutto, o meglio sa che si deve lavare le mani spesso, che le deve lavare sempre ai figli, e che a diffonderlo sono stati i caschi blu del Nepal. In realtà l’inchiesta è in corso. Dal 7 gennaio 2011, a oltre ottanta giorni dalla diffusione dell’epidemia che ad oggi ha ucciso oltre 3.300 persone, è operativa la commissione indipendente di esperti incaricata di determinare le cause della diffusione del colera che ha colpito Haiti. Con i tempi consoni a un gigante dai piedi di argilla, le Nazioni Unite riusciranno, forse, “a identificare la causa dell’epidemia, importante sia per l’ONU sia per la popolazione di Haiti” ha affermato il portavoce del Segretario delle Nazioni Unite. Ma il tribunale popolare composto da Jana, e da tantissimi altri haitiani ha da tempo già emesso sentenza “sono i caschi blu, sono i nepalesi” e  probabilmente nulla li dissuaderà tantomeno la dichiarazione ufficiale partorita dalla commissione. La verità è che il colera ha abbattuto non solo più di tre mila vita ma ha ucciso l’anima e il cuore di molti haitiani. A dieci mesi dal terremoto che si è portato via 230mila persone, Jana si è stropicciata ben bene quegli occhi grandi e lucidi da innamorata: quei ricchi che vivono nel mondo che vuole bene a Haiti e agli haitiani, quei milioni di turisti che sono passati di qua, che hanno preso in braccio i suoi figli per farsi le fotografie, quei bianchi sì, ma anche quei neri avec l’argent, quei francesi e perché no quei cinesi, noi, vi abbiamo dato una mano che però a stento, ancora oggi, fatica a raggiungere e a stringere la vostra. Il fiore all’occhiello della comunità internazionale sono le tende, gli accampamenti, i rifugi – alcuni in verità sono ridotte molto male perché non erano chiaramente destinate a durare a vita. Ma neanche quelli ho visto, dice Jana che come pareti della sua casa ha scelto delle lamiere trovate per strada e come tetto un telo dell’associazione Samaritani d’America.  Mi sa che i samaritani non sanno nemmeno che esistiamo, dice ridendo. E qui non è venuto mai nessuno a raccontarci come si combatte il colera. Ci siamo passati la parola tra di noi. Ah, il vecchio sistema del passa parola che funziona, sì, ma che ti fa capire che alla fine sei tu davanti alla guerra e insomma, cavatela da solo. Il paradosso è che Haiti vanta di essere “la repubblica delle ong”. Un reportage di qualche mese fa sulla rivista Wired nella sua edizione americana ha contato oltre 900 organizzazioni non governative che operano sull’isola. E’ difficile sapere il numero preciso, ce ne sono tante è vero, le grandi e storiche associazioni come Medici senza frontiere e la britannica Oxfam, ci sono le agenzie delle Nazioni Unite come l’Unicef, e un’ infinita moltitudine di piccoli e piccolissimi gruppi messi in piedi alla buona subito dopo il terremoto del 12 gennaio con pochi mezzi e spesso incapaci di gestire situazioni d’emergenza.

La buonafede, quando c’è, non basta, questo è ormai chiaro. Sarebbe sufficiente fare due chiacchiere con le persone che riempiono i voli dagli Stati uniti a Port-au-Prince. “Voglio dare una mano. No, no, non ho mai fatto questo tipo di esperienza ma sento che devo aiutare. Sentirsi utili, in qualche modo, magari per una settimana, o due, perché poi bisogna tornare a casa a gestire le proprie faccende. Già a novembre il capo missione di Medici senza Frontiere Stefano Zannini in un comunicato stampa e in un’intervista al Riformista aveva invitato tutte le Ong e le agenzie delle Nazioni Unite a lavorare in modo più pertinente e veloce. Pochi giorni fa anche Oxfam ha ribadito lo stesso concetto. “Le piccole organizzazioni sono state fondamentali e cruciali nelle settimane successive al terremoto” ha spiegato al telefono la portavoce Julie Schindall “ora c’è bisogno di professionisti che cooperino e siano in grado di portare un valore aggiunto a questa drammatica situazione. Queste persone devono ora chiedersi, cosa sto offrendo agli haitiani, sono indispensabile in questo momento? E quindi ripensare perché si è qui”. Oltre a una certa incapacità di lavorare in maniera efficiente sul campo, “c’è da dire che molte promesse non sono state mantenute” ha precisato Julie. Le promesse sono i soldi. Basta pensare che a Haiti non sono pervenute ancora le donazioni promesse  dalla blasonata associazione dell’ex presidente americano Bill Clinton che dal giorno del terremoto ha visitato il paese diverse volte. Jana come molti altri haitiani non conosce l’associazione di Bill Clinton, ma da mesi ha smesso di sperare, macché futuro, quale domani. Questi sono lussi che si possono permettere gli altri, non noi! Jana da un anno ha capito che è meglio curare il suo giardino d’asfalto, la sua isola felice, nel tentativo – senza illudersi troppo- di non finire sotto una macchina o un cingolato delle Nazioni Unite.

 

 

 


un anno dopo …

gennaio 11, 2011

I GUARDIANI DELLA CATTEDRALE

LA CATTEDRALE